Sepolcro barone Marco Trigona, XVII sec., Cattedrale, Piazza Armerina
Sepulcher baron Marco Trigona, 17th century, Cathedral, Piazza Armerina

martedì 18 dicembre 2018

Edicola n. 64

L'Edicola Votiva n. 64 si trova in via Sascaro al Monte. Precisamente alla fine della via che arriva in piazzetta Misericordia. Realizzata di recente in mattonelle di ceramica, è racchiusa in una nicchia, che sembra una finestra, da uno sportello in ferro e vetro. Col riflesso non si vede bene cosa sia rappresentato nelle mattonelle, ma se ci si avvicina si scorge la Sacra Famiglia. Per come è stata realizzata e per come è tenuta, mi sento di complimentarmi con la famiglia che abita nell'edificio. Siamo a pochi passi dalla Cattedrale e altrettanto vicini da diverse chiese che oggi non esistono più, quella della Misericordia e quella di San Marco. La via che prende il nome dalla chiesa della Misericordia è da considerare la prima stràta mastra della nostra città. Infatti, era la strada principale per dimensioni e importanza, perché nel XIII secolo collegava i due edifici più importanti di quei tempi, la prima chiesa di Piazza, San Martino di Tours, col castello di Piazza, poi convento francescano nonché ospedale "Chiello". La strada per l'esposizione a mezzogiorno e per i frutti che vi si potevano essicare al sole in quantità, era chiamata dai nostri antenati che vi abitavano a stràta d' li chiàppi, ovvero la strada di passulöngh, dei fichi secchi.
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sabato 15 dicembre 2018

A S. Lucia il Bambino Gesù di Praga

Nella foto c’è la statua del Bambino Gesù di Praga che oggi si trova nella chiesa di Santa Lucia ai Canali. È la copia della statuetta lignea e ricoperta di cera, la cui venerazione è dilagata in tutto il mondo cattolico, dopo che la principessa Polyxena di Lobkowitz, ricevuta come dono di nozze dalla madre spagnola Maria Manrique de Lara y Mendoza (1538 ca.-1608),  la donò ai frati Carmelitani scalzi di Praga nel 1628, dove si trova collocata nella chiesa di S. Maria della Vittoria. A Praga, inoltre, sono conservati una gran quantità di vestiti per il santo Bambino donati da Governi di tutto il mondo. Sebi Arena il 13/12/2017 su Facebook ci fece sapere che «La statua era collocata nel primo altare di destra della chiesa di S. Maria d'Itria prima del rovinoso crollo di una decina di anni fa. Quando ero bambino si faceva una piccola processione sul sagrato della chiesa dove si bruciavano in un braciere i "fioretti" che avevamo fatto».
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mercoledì 12 dicembre 2018

Corbezzolo, uno spettacolo... storico!

Il corbezzolo e i suoi frutti

Proprio in questo periodo dell’anno, un albero diffuso in tutta l’area mediterranea, dopo la sbocciatura a grappolo di piccoli fiori bianchi a campanula, ha prodotto dei frutti tondeggiandi di un bel rosso acceso, come quelli nella foto. Si tratta dell’Arbutus unedo o Àlbatro, altrimenti conosciuto in Italia come Corbezzolo (Salernitano), a Piazza ‘Mbriaccòt (Ubriaco). È un albero di modeste dimensioni dallo sviluppo disordinato e con fogliame brillante sempreverde col margine seghettato, il cui fusto è un ottimo combustibile per il riscaldamento casalingo, ma il suo utilizzo maggiore è per gli arrosti grazie alle sue caratteristiche aromatiche. Il corbezzolo è un legno molto robusto e pesante, e si racconta che nell’antica Grecia fosse ricercato per tornire dei piccoli flauti. Per il bel colore vivo delle bacche, in contrasto con la chioma brillante, l’albero è denominato "pianta dell'ospitalità", perché posto solitamente all'ingresso delle dimore dei feudatari, in prossimità dei cancelli, era il benvenuto adeguato per gli ospiti. Oltre allo scopo decorativo, esiste quello di ottenere dei buoni frutti dal sapore molto dolce da consumare crudi o in marmellata. Il sapore però per alcuni è fastidioso, ecco da dove deriva il termine unedo. Plinio il Vecchio, in contrasto con l'apprezzamento che in genere riscuote il sapore del frutto, sosteneva che esso fosse insipido e acidulo (ricorda i frutti del Sorbo) che quindi dopo averne mangiato uno (unum = uno e edo = mangio) non viene voglia di mangiarne più. Pertanto, al nome dato da Virgilio, che nelle Georgiche lo chiama semplicemente Arbustus (Arbusto), si aggiunge quello di Plinio, unedo. I frutti, come si è detto, si possono consumare direttamente, farne delle confetture o delle mostarde o, conservandoli sotto spirito, dei liquori. Ed è proprio con la fermentazione che forniscono una buona acquavite, dal cui distillato si ricava una bevanda alcolica. Da ciò nasce il nome piazzese ‘Mbriaccòt (che fa ubriacare). Attorno a questo bellissimo albero, esistono diversi aneddoti e curiosità. • La rudimentale barella di Pallante, figlio di Evandro e grande compagno di Enea, con cui fu portato “fuori dalla pugna” venne intrecciata con rami di Corbezzolo. Pallante era stato il primo ad avvistare la nave dei profughi di Troia, guidati da Enea, che risaliva il Tevere. Fu poi ucciso da Turno, re dei Rutuli. Quest’ultimo, sfidato da Enea in combattimento, venne a sua volta sopraffatto e ucciso consentendo così ad Enea di vendicare la morte del suo grande amico. Successivamente Enea sposò Lavinia, figlia del re Latino, che però prima era stata promessa a Turno. Dopo questi fatti venne fondata la città di Lavinia, che dovrebbe essere l’odierna Pratica di Mare. • Forse partendo anche da questi lontani spunti, vari Autori indicano come il Corbezzolo fosse poi divenuto un albero risorgimentale. Quindi un simbolo dell’Unità d’Italia per la sua storia, ma anche e soprattutto per i suoi colori autunnali delle foglie (verde), fiori (bianco) e frutti (rosso), che rievocano quelli della bandiera della Repubblica Cispadana prima (Tricolore orizzontale, Reggio Emilia 23 dicembre 1796), della Repubblica Cisalpina poi (Tricolore verticale, 7 gennaio 1797) e, infine, del Regno e della Repubblica Italiana. Ecco perché il corbezzolo è chiamato anche “la pianta di Garibaldi”. • Il Monte Cònero, dal nome greco del Corbezzolo (κόμαρος - pron. Kòmaros), è il promontorio sulle cui pendici settentrionali, dove la vegetazione è appunto ricca di arbusti di quest’albero, sorge la città di Ancona. Qui una secolare tradizione voleva che gli abitanti della zona accorressero nel giorno dei santi Simone e Giuda (28 ottobre) nelle selve per cibarsi abbondantemente dei frutti del corbezzolo incoronandosi dei rami della pianta, perpetuando così un rito bacchico rivisitato in chiave cristiana. Oggigiorno la festa del corbezzolo non è più celebrata ufficialmente, ma gli abitanti della zona del Cònero amano ancora recarsi nei boschi del promontorio per raccogliere i corbezzoli durante le belle giornate autunnali. • Un ramo di corbezzolo con due frutti è rappresentato nello stemma della Provincia di Ancona, a indicare la particolarità geografica maggiore della zona. • La città di Madrid ha come simbolo un'orsa poggiata su di un albero di corbezzolo. • Il poeta latino Ovidio parla del corbezzolo descrivendo la vita nell'età dell'Oro:
«Libera, non toccata dal rastrello, non solcata
 dall'aratro, la terra produceva ogni cosa da sé
 e gli uomini, appagati dei cibi nati spontaneamente,
 raccoglievano corbezzoli, fragole di monte,
 corniole, more nascoste tra le spine dei rovi
 e ghiande cadute dall'albero arioso di Giove».
• Le leggende raccontano che rami di corbezzoli messi sugli usci servissero per proteggere le stalle e le culle dei neonati. Si narra di una vicenda mitologica in cui le strigi, strani uccelli con il becco da rapaci e le penne tutte bianche (si diceva fossero donne trasformate così, per magia!) tentarono di aggredire la culla di Proca, l’erede al trono di Alba Longa. Però con filtri magici, e un ramo di corbezzolo appunto, le nutrici riuscirono a salvare il bimbo dall’attacco delle predatrici.
• Da ultimo segnalo, anche per una certa somiglianza di forma dei frutti (che sono inconfondibili palline di colore rosso) che questi vengano associati alla dizione toscana di “corbelli”. Quindi si esclama: “non rompere i corbezzoli”, alludendo però a qualcos’altro!

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lunedì 3 dicembre 2018

Fontana Park Hotel/n. 68

Questo è il mascherone della Fontana n. 68 presente presso il Park Hotel Paradiso. Si trova in c.da Sant'Andrea, appena varcato l'ingresso della grande struttura alberghiera, sulla destra. Anche se nella bocca del mascherone in terracotta c'è un grosso tubo, da questo non fuoriesce l'acqua. Tanti anni fa, quando la struttura aveva cambiato il nome da Villa Assunta a Park Hotel Paradiso, poco metri dopo questa fontana, c'erano gli unici campi da tennis usufruibili della città. Oggi la struttura offre una piscina all'aperto in estate e una al coperto in inverno.

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venerdì 23 novembre 2018

Edicola n. 63

L'Edicola Votiva tra le vie Barbera a sx e S. Nicolò a dx
Interno dell'Edicola Votiva n. 63

 
L'Edicola Votiva n. 63 è quella che si trova tra le vie Barbera e S. Nicolò nel quartiere Monte. È un'edicola ricavata da un vano a piano terra dell'edificio posto all'inizio delle due vie, probabilmente di proprietà privata. Le vie si trovano nella parte più antica del quartiere Monte, a pochi passi dalle chiese di San Martino, del SS. Crocifisso e di San Nicolò. Quest'ultima è quella che, molto probabilmente, diede anche il nome al colle su cui si è formato nei secoli il quartiere, il colle Mira. Infatti, San Nicola o Nicolò, nato nel 270 ca. a Patara (in Licia - Turchia), è chiamato in diversi modi: San Nicola di Mira (o Myra - oggi Demre in Turchia) per essere stato vescovo di quella città, San Nicola di Bari, San Nicola Magno, San Nicola dei Lorenesi. L'altra via prende il nome dalla famiglia Barbera che abitava in quel sito. Raramente l'edicola si trova aperta, ma sono riuscito ugualmente a vedere e fotografare l'interno, dove, oltre a un portavaso alto, c'è un piccolo altarino con dei vasi in vetro, un crocifisso e un bambino Gesù, di quelli che si trovano nei presepi.

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mercoledì 14 novembre 2018

Fontanella Stazione Dittaino/n. 22

Quella nella foto è la Fontanella della Stazione Ferroviaria di Dittaino/n. 22 del mio censimento. Mi verrebbe da dire che è quello che rimane della fontanella di una volta, a pochi passi dal cancello d'ingresso laterale di dx, che immette subito sulla banchina ferroviaria. È arci arrugginita dopo diverse mani di pittura, in disuso, senza acqua e messa lì in "castigo", abbandonata. Sarebbe meglio metterla da parte, ma noi, si sa, "ci teniamo" alle cose antiche. Chissà, forse un domani ci potrebbe servire nuovamente, meglio tenerla così, pronta al disuso. Inutile ricordare, soprattutto a quelli della mia età, l'importanza che aveva per noi Piazzesi questa stazioncina in mezzo alla piana deserta del fiume Dittaino, sino a qualche decennio fa. Da Piazza, prima in littorina, poi in auto, si arrivava per dirigersi coi treni sempre più "confortevoli", o verso Catania e quindi verso il Nord, per studiare o trovare fortuna, con la speranza un dì, di tornare (ma quànnu?!), o verso Palermo, per sbrigare faccende regionali o studiare come me all'I.S.E.F.. Da Piazza più di due ore e mezza per Catania, quasi cinque per Palermo. Cioè il tempo che ci vuole oggi per andare in aereo a Milano, fare acquisti alla Rinascente, e tornare in serata. Per non parlare del ritorno. Se il treno arrivava in ritardo, quasi sempre, non si trovava la coincidenza con la Littorina prima, con l'autobus sostitutivo poi. Niente male, non rimaneva che telefonare ai nostri familiari in trepida attesa dal telefono a scatti del bar ma, se questo aveva già chiuso, dal telefono a gettoni, anch'esso quasi sempre fuori uso. Dopo qualche ora, un parente o un amico, a sua volta avvertito da qualcuno di passaggio da Dittaino, che gli aveva comunicato che c'erano numerosi viaggiatori lì ad aspettare, partiva alla volta della stazione, per recuperare i superstiti, a bordo di auto sempre ultimo modello. Pertanto, si arrivava a casa dopo ore e ore di viaggio, freschi come le rose. Se il "recupero-superstiti" tardava, c'era il MOTEL accanto per trascorrere lì la notte che, se non sbaglio e la memoria non m'inganna, si chiamava "SALA D'ASPETTO II CLASSE", con  lunghe poltrone in legno di mogano così comode, ma così comode! Scusate, mi sono fatto "trasportare" dai ricordi dei bei tempi. Comunque, nel bene e nel male, oggi, ogni volta che passo in velocità da quel bivio diretto verso l'autostrada o l'outlet, getto sempre un'occhiata a quella stazione e, vi assicuro, non è mai di sfuggita.

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sabato 10 novembre 2018

Fontanella c.da Gigliotto/n. 21

Questa nella foto è la Fontanella di c.da Gigliotto n. 21. Come si vede è in pietra e molto recente, ma la storia del sito dove si trova, la stessa della Fontana/Abbeveratoio di c.da Gigliotto/n. 43 , è molto antica. Gigliotto, che da noi è associato al bivio che si trova a ca. 18 Km da Piazza, si trova a 4 Km da San Michele di Ganzaria e a poco più di 2 da San Cono, in provincia di Catania. La fontanella si trova al centro della grande Azienda Agrituristica Gigliotto, su una collina dalla quale si ammira il panorama di gran parte della Sicilia orientale. Al tempo degli Aragonesi questa vasta area chiamata Ganzaria,¹ era un feudo della famiglia Gravina, precisamente di Michele Gravina De Modica il quale, nel 1574, vende il feudo Gigliotto a Silvio Bonanno, forse un suo nipote.² Da allora il feudo rimane di proprietà della famiglia Bonanno sino ad arrivare a Francesco Paolo Bonanno Cattaneo principe di Linguaglossa nel 1899. Nel 1990 il feudo viene acquistato dalla famiglia Savoca, residente a Piazza, che trasforma la masseria.

¹ Il nome deriva da Cunsaria dall'arabo Hinzàriyyah ossia "cinghialeria", dagli animali che evidentemente popolavano questa zona e quella vicina di Qal'at a-Hinzàriyyah «la rocca della cinghialeria» ovvero Caltagirone, chiamata anche Qal'at al-Ganùn «la rocca dei genii» (Cfr. Biblioteca Arabo-Sicula, raccolta da Michele Amari, seconda edizione riveduta da U. Rizzitano, I, Palermo 1997, p. 86 e nota 231). Alla fine del Quattrocento il casale in terra di Ganzaria, fondato dagli Arabi e abitato dagli Angioini, risulta distrutto. È Don Antonio Gravina "il Bellicoso" che nel 1534 lo ricostruisce, favorendo l'insediamento di esuli Greco-Albanesi che si impegnano a costruire case in muratura, perciò il casale è detto "dei Greci".
² In quanto Michele Gravina De Modica, barone di Gigliotto nel 1569, era sposato con Fenisia Bonanno. Nella stessa pagina al rigo 17 di F. San Martino De Spucches, Vol. IV, p. 94, si riscontra un errore cronologico o di stampa: «s'investì dei feudi Gigliotto [...] a 6 maggio 1669» invece di 1569.

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martedì 6 novembre 2018

La lapide a Sant'Anna

Lapide all'interno della Chiesa di Sant'Anna (Nuova)¹, sopra il portone d'ingresso principale

Finalmente da qualche mese si è potuto accedere, anche se ancora in maniera ufficiosa, all'interno della bellissima (una volta) e particolarissima chiesa dedicata a Sant'Anna nella nostra Città. Infatti, grazie all'interessamento della nuova amministrazione, è stato aperto il grande portone che dà sulla via Vittorio Emanuele II, per intenderci na calàda ô Culègiu (nella discesa del Collegio dei Gesuiti), per dare almeno una pulita al pavimento della grande aula ottagonale, ormai senza più mattoni. Alle pareti in alto i resti di qualche affresco e di qualche scultura in gesso, che fanno immaginare lo spettacolo che doveva essere un tempo. Ma, all'occhio del piazzese curioso, non poteva sfuggire un piccolo/grande particolare che è resistito alle barbarie che hanno investito questa chiesa lungo quasi due secoli e mezzo. Infatti, fu la baronessa Geronima Rivarola dei baroni di Rafforusso², sorella di Maria, una delle dodici suore presenti nel monastero nel 1655 (da tredici anni autorizzato dal Papa) nonché una delle sei promotrici³ alla mutazione in monastero del precedente Ritiro di donne della Congregazione di Santa Brigida nei primi anni del Seicento4, a finanziare, sul finire del Seicento, le opere per trasformare l'oratorio in chiesa. «I lavori dovettero durare alcuni decenni e dovettero trovare nuovi e sostanziosi finanziamenti nella famiglia Trigona, se sulle porte si scorgevano, fino a qualche anno fa, i blasoni di detta famiglia. [...] Nei giorni 24-25-26 luglio 1745 [...] con grandi festeggiamenti ed alla presenza del vescovo di Siracusa, Matteo Trigona dei baroni di San Cono e di Mirabella [...] indubbiamente si trattò dell'inaugurazione».5 Dopo quasi mezzo secolo, «nel 1797, vi fu la dedicazione della nuova chiesa a Sant'Anna [come ci ricorda, appunto] la lapide posta nel vano ingresso principale [che] così recita: "A DIO OTTIMO MASSIMO - Alla Madre della Genitrice di Dio [San'Anna], le sacre figlie di Sant'Agostino dedicarono [questa chiesa] assecondando la loro somma pietà religiosa durante il superiorato di Suor Maria Crocifissa Capizzi - 1797"».6 Nella foto, inoltre, dentro al cerchietto, è riportato lo stemma dell'Ordine Agostiniano a cui appartenevano sia l'originario Ritiro di donne sia il Monastero.
¹ La chiamo "Nuova" perché nell'ultimo restauro che è stato eseguito presso il monastero di Sant'Anna, abbattendo i muri di tramezzo nei locali al secondo piano, quello a livello della strada, che ospitavano la segreteria delle Scuole Elementari oggi Sala Conferenze, è venuta alla luce la Vecchia cappella (si suppone dedicata alla Santa) di cui si servivano sin dalla metà del Seicento le suore. Sull'arco absidale della stessa è presente lo stemma della famiglia Trigona.
² Feudo a ca. 18 Km da Piazza verso Gela, a dx della SS. 117bis.
³ Le altre cinque furono «M. Maddalena Trigona, Angela M. Trigona, Maristella Caldarera, Benedetta M. Pirri [parente dello storico Rocco Pirri], Anna M. Cagno».  (L. Villari, Storia Ecclesiastica della città di Piazza Armerina, Messina 1988, p. 350.
4 «Il Ritiro di donne sorse nel primo decennio del 1600 ad opera di Pietro Calascibetta dei baroni del Cutomino [...] che qualche anno dopo nella sua casa fondò la Congregazione di Santa Brigida, confinante con l'Oratorio di Sant'Anna [...] Nel 1616 i Padri Gesuiti convinsero il sacerdote don Andrea Trigona barone di San Cono, ad ampliare l'Oratorio e a lasciare nel suo testamento dei legati a favore della Congregazione». (Ivi, 349-350).  In Alceste Roccella invece si legge che «costei [Girolama Rivallora] per le insinuazioni del sacerdote Andrea Trigona compì la congregazione Sant'Anna di Piazza, edificandovi a sue spese, nel 1640 la chiesa che durò sino al 1745. Finalmente, si rinchiuse e nello stesso Sant'Anna ove santamente visse e morì donandogli molti suoi averi» (Alceste Roccella, "Storia della città di Piazza. Famiglie Nobili." Manoscritto inedito, copiato in PDF, Piazza Armerina, Biblioteca Comunale, [penultimo decennio sec. XIX], p. 87).
5 L. Villari, Storia Ecclesiastica, op. cit., p. 350.

6 Cfr. L. Villari, Storia della città di Piazza Armerina, Roma 2013, p. 447.

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martedì 30 ottobre 2018

Rivoli (TO) intitolazione al Gen.le Cascino


Il nostro concittadino Salvatore Trebastoni, Maresciallo Lgt. degli Alpini in pensione, residente a Rivoli (TO), mi ha inviato il manifesto nella foto, per segnalarmi un'importante cerimonia, che si svolgerà il prossimo sabato 3 novembre. Si tratta dell'intitolazione dell'area verde di piazza San Bartolomeo nella sua città di residenza, al nostro generale Antonino Cascino. Questa intitolazione avrà luogo soprattutto per l'assiduo interessamento che è sfociato nella richiesta del nostro concittadino che, molto legato alle tradizioni e agli uomini illustri piazzesi, ha fatto presso il Comune di Rivoli, allegando una biografia del nostro Eroe della I Guerra Mondiale. Sono sicuro che Salvatore sarà orgoglioso, come noi tutti, che a Rivoli ci sia uno spazio urbano dedicato o nòstr Generàl a pochi passi «dall'ex caserma a lui intitolata proprio ai piedi del Castello, a fianco alla chiesa di San Bartolomeo. Nel corso degli anni una parte fu demolita, per far posto all'attuale piazza San Bartolomeo e alla via Roma, e la rimanente trasformata in una scuola oggi in disuso», come Salvatore ci segnalava due anni fa circa, commentando un post sulle tante intitolazioni al nostro Generale.

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sabato 27 ottobre 2018

Edicola n. 62

L'Edicola Votiva di via Gesù e Maria nel 2015
L'Edicola Votiva di via Gesù e Maria nel 2018

L'Edicola Votiva n. 62 è quella che si trova in via Gesù e Maria, una delle vie più a ovest dell'antico quartiere Monte. La via si trova a pochi passi dalla chiesa di San Martino, proprio dove si trovava una delle sette porte della città, la Porta di San Martino, che separava l'antico centro abitato dalla costa/campagna omonima. La strada prende il nome dalla piccola chiesa dedicata a Gesù e Maria di cui si vedono ancora i pochi resti rimasti nella ripida discesa verso gli orti, giù in fondo nella valle Rocca, attraversata appunto dal torrente Rocca, proveniente da est dall'alto del quartiere Casalotto. La foto in alto si riferisce all'edicola in condizioni pietose nel 2015, mentre quella in basso a quella restaurata da quache mese da qualche abitante di buona volontà. Con pochi ritocchi il fedele ha reso la nicchia, ricavata in un muro di un'abitazione scendendo a sx, decorosa e dignitosa, adatta ad accogliere l'immagine cartacea della nostra Patrona, Maria SS. delle Vittorie. Questo dimostra che con poco e senza sbandieramenti si può rendere civile, accettabile e decoroso un angolo della propria città, ancora di più se si tratta di un luogo tra i più antichi e suggestivi di uno dei due quartieri originari della nostra Piazza.
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venerdì 12 ottobre 2018

Edicola n. 61


Più che un'edicola votiva la n. 61 del mio censimento è un complesso monumentale, con relativa grande statua di San Pio da Pietrelcina (1887-1968) e, inoltre, con una cripta nella parte sottostante. Dall'articolo su ViviEnna.it apprendiamo che «Il complesso monumentale di Piazza Armerina, meta continua di tanti devoti, fu inaugurato nel 1996, da mons. Vincenzo Cirrincione, vescovo della diocesi di Piazza Armerina». La grande statua si trova all'ingresso della Città, 100 m prima della caserma dei Carabinieri, col Santo rivolto verso chi arriva dall'entrata nord, dal Cimitero della Bellia per intenderci, a qualche decina di metri dopo la Commenda di San Giacomo d'Altopascio. Questa zona, adesso in espansione, sino a qualche decennio fa veniva intesa come "quartiere Cannizzaro", dopo il piano della Stazione Ferroviaria. Il complesso è sempre tenuto in ordine e pulito, perennemente pieno di lumini e fiori. «Tutto ciò è dovuto, come ci ricorda il coordinatore del gruppo di preghiera geom. Paolo Orlando, all'ammirevole e straordinaria venerazione sentita nella nostra città a San Pio».
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domenica 30 settembre 2018

Perché si chiama Madonna della Catena

La Madonna della Catena nella chiesa del Crocifisso, Piazza Armerina

<<Il culto della Madonna della Catena, depurato dagli elementi miracolistici, trae origine dalla devozione alla Madonna come protettrice degli schiavi e dei prigionieri. Nasce alla fine del Trecento ma ha davvero sviluppo dopo la prima metà del Cinquecento, quando le incursioni barbaresche ridussero in schiavitù molti cittadini dell'Italia Meridionale, e la Congregazione dei padri mercedari si adoperò per il loro riscatto. La denominazione di Madonna della Catena si apparenta quindi a quella di Madonna della Mercede, Madonna del Soccorso, e degli Schiavi. Il culto della Madonna della catena nasce nel 1392 a Palermo, quando regnava in Sicilia Martino I il Giovane. Tre uomini furono ingiustamente condannati e il 18 agosto furono condotti a Piazza Marina, dove avrebbero dovuto essere impiccati. Proprio mentre stavano preparando le forche, si scatenò un gran temporale che costrinse i carnefici a rifugiarsi nella Chiesa della Madonna del Porto e il popolo a fuggire. In attesa che si potesse riprendere l'esecuzione, i tre condannati furono legati con doppie catene all'altare della Vergine, ma il temporale continuò per l'intera giornata, e le guardie dovettero passare la notte nella chiesetta per sorvegliarli. I tre si portarono lacrimando ai piedi della Madonna invocandola col titolo di Vergine delle Grazie e cominciarono a pregarla insistentemente, e a un tratto, mentre i soldati cadevano in un profondo sonno, le catene che trattenevano i tre si spezzarono e la voce della Madonna li rassicurò "Andate pure in libertà e non temete cosa alcuna: il divino Infante che tengo tra le braccia ha già accolto le vostre preghiere e vi ha concesso la vita!". Le catene caddero senza far rumore e la porta si spalancò, i tre innocenti uscirono dal tempio e le guardie si svegliarono solo all'alba. Subito i soldati riuscirono a riprendere i fuggitivi ma furono fermati dal popolo che ricorse al re Martino I. Quando questi andò nella chiesetta, coi propri occhi constatò il miracolo: le catene si erano infrante. Subito l'eco del miracolo si diffuse ovunque, e frotte di pellegrini giunsero alla chiesa che ormai era chiamata "della Catena". I miracoli si moltiplicarono e la Madonna della Catena divenne patrona di molti comuni dell'isola e venerata in tantissimi altri, e il suo culto arrivò in tutto il Sud Italia. Ancora oggi la chiesa è meta di pellegrinaggi e conserva il simulacro di Nostra Signora della Catena. Nel 1500 alla chiesa venne attaccata una delle catene che chiudevano il porto e prese ufficialmente il nome con cui già l'aveva battezzata il popolo un secolo prima>>. (fonte Wikipedia)

Cronarmerina desidera ricordare che in passato, quando il parto delle gestanti si presentava particolarmente difficile, nei casi disperati si arrivava ad adagiare la catena, che si trova nella mano destra della Madonna, sul ventre della partoriente per facilitarne il parto. Inoltre la statua è stata sempre esposta nell'ex chiesa di San Nicola al Monte, in seguito, nel 1651, chiamata anche chiesa della Madonna della Catena.
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mercoledì 26 settembre 2018

Turismo di sessant'anni fa

Emigranti italiani alla stazione di Wolfsburg (Germania) anni '60

Attraverso lo sfogo di un mio coetaneo, appreso su Facebook, racconto come si faceva “turismo” negli anni ’60, e come venivano gestiti in maniera spicciativa e concreta i “turisti” provenienti dall’Italia del boom economico. Io e altri più fortunati, grazie ai sacrifici dei genitori, non abbiamo potuto godere di questi “felici” soggiorni. Mentre io potevo frequentare l'I.S.E.F. a Palermo, per contare su un futuro lavorativo sicuro, altri della mia stessa età tentavano la fortuna nei paesi del Nord Europa, tra tanti sacrifici e privazioni. Adesso, dopo tanti decenni si ripresentano gli stessi problemi per tanti nostri giovani, come se, nel frattempo, fossimo stati governati da extraterrestri, piombati sulla Terra per caso e che si sono disinteressati delle generazioni future. Io non avrò la possibilità di conoscere l’Italia tra 20, 30 o 40 anni, ma mi sa tanto che sarà un continuo “tirare a campare”, come abbiamo fatto per secoli e secoli. Ho volutamente saltato l’ultima parte dello sfogo dell’emigrato italiano, perché contiene argomenti che tutti rimproveriamo giornalmente ai nostri cari amministratori, ma senza alcun risultato, come se vivessero su un altro pianeta, come se fossero qui di passaggio e trascurando persino la gestione dei nuovi immigrati, anche loro in cerca di miglior sorte, lontani dalla loro nazione. Tutti i popoli sono stati e saranno migranti ma, per la loro integrazione e convivenza, occorrono poche idee ma chiare, da far rispettare agli italiani e agli ospiti, senza ipocriti buonismi, altrimenti ci attenderanno tempi poco felici, a noi e a loro.

                          Da Facebook, Vinicio Patruno,1 settembre 2018, ore 10:52.
<<Sono un EMIGRANTE, da 43 Anni a Zurigo, Svizzera, dall'eta' di 18 anni e nel 2019 avrò 65 anni, ma ricordo molto bene quell’anno: settembre 1972. Avevo da poco compiuto 18 anni. Arrivati a Zurigo, dopo un viaggio di 20 ore, di treno diretto Lecce-Zurigo, il treno pieno di emigranti, giovani come me, non trovammo il Comitato di Accoglienza di cittadini svizzeri con caffè caldo e biscotti… e borse di indumenti e regali per i “Gastabeiter” tradotto “ospiti-lavoratori”, ma la "Fremdpolizei" (polizia per gli stranieri) che gentilmente ai nuovi arrivati domandavano, in perfetto italiano: 1 Biglietto da dove è partito; 2 Contratto di lavoro; 3 Indirizzo dove risiedere fino al 18 dicembre che era il giorno della scadenza del contratto; 4 Ci pregavano di presentarci a “Kloten Aeroporto di Zurigo” per la “Gesundheiten Kontroll” (controllo dello stato di salute) dove una volta passato il controllo, se eri in salute ottimale veniva messo il visto sul contratto di lavoro “Gesund Bestedigt: STATO DI SALUTE OTTIMALE può lavorare”; se non lo superavi veniva messo il visto “Nicht Bestedigt: STATO DI SALUTE NON OTTIMALE” e il venerdì successivo venivi accompagnato sullo stesso treno e partivi con un biglietto di ritorno per l’Italia. Ha notato la differenza? […] Eravamo e siamo una ricchezza economica e finanziaria da oltre 75 anni e non un onere per l’Italia come i vostri “migranti”, per un accordo bilaterale tra i paesi Svizzera e Italia, con richiesta di manodopera per lavorare con contratto di lavoro legale, permesso legale, noi siamo stati il 35% del Pil italiano per 30 anni! A tanto corrispondevano le entrate in Italia! 890.000 emigranti ogni FOTTUTISSIMO MESE mandavamo il denaro in Italia, una marea di denaro, solo a Zurigo e Kantone eravamo 150.000 italiani. Vada nei registri a Berna e domandi quanti emigranti italiani in 75 anni si sono macchiati di crimini verso le cittadine e cittadini svizzeri, verso il paese elvetico, con stupri, assassinii, rapine, borseggi e forme varie di accattonaggio, piuttosto morivamo di fame, ma sempre con la dignità di italiani anche noi, caro On.le Civati. Abbiamo avuto i nostri morti e tanti non ce l’hanno fatta, sono morti giovani, avrebbero la mia stessa età, tanti purtroppo non riposano nel paese natio, in Italia, ma qui in Svizzera, ma senza tante polemiche, senza notizie sui media e giornali italiani o dibattiti idioti in Tv (vedi La7 – 8 – 9) ma solo una anonima tomba con una croce, nome e cognome, data della morte e la scritta “Gestorben Wegen Arbeiten Unfall”, MORTO SUL POSTO DI LAVORO. Il prossimo anno avrò 65 anni ed avrò la pensione svizzera, ma sempre italiano, orgogliosamente italiano, ma deluso di avere come rappresentanti dei politici che non si preoccupano degli italiani […]. Delfino Donato>>.
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sabato 22 settembre 2018

Edicola n. 60

L'Edicola Votiva n. 60 è quella rappresentata dalla statua di Padre Pio posta su una colonna di grosse pietre. Si trova in contrada Santa Croce, subito dopo la rotonda per Mirabella Imbaccari, nell'angolo a sx formato dalle vie Ammiraglio Conti, Caduti di Nassirya e Leonardo da Vinci, che poi continua con la SP16 verso Mirabella Imbaccari. È molto semplice e recentemente ho constatato che è tenuta molto bene dagli abitanti vicini. Approfitto dell'occasione per ricordare ai miei concittadini che la zona, la contrada e, quindi, la rotonda, prendono il nome da un'antica chiesa che si chiamava appunto Santa Croce¹. La chiesa era vicina alla croce in pietra ancora esistente, alla cui base c'è scolpito l'anno 1714. Ultimamente, facendo altre ricerche, ho letto che la chiesa e poi la croce, erano state edificate, perché era consuetudine dei fedeli piazzesi percorrere, diverse volte l'anno, una Via Crucis che partiva dalla croce, anch'essa in pietra, di San Pietro, quindi attraversava le Botteghelle, scendeva la discesa di Altacura, saliva per l'odierna via Libertà, allora una trazzera che costeggiava il convento dei Cappuccini sovrastante, per poi dirigersi verso Santa Croce, dove poi fu eretta l'omonima chiesa. Lungo il percorso esistevano diverse edicole votive, davanti alle quali i fedeli si fermavano in preghiera, per poi riprendere il cammino. La chiesa di Santa Croce all'inizio del Novecento fu abbattuta, per realizzare la rotabile per Mirabella Imbaccari, rimanendo in suo ricordo soltanto la vicina e robusta Edicola Votiva.
¹ Con questo nome esiste anche un monte tra Piazza Armerina e Mirabella Imbaccari, a un paio di Km ca. a Nord-Est di quest'ultima. Il monte Santa Croce, che sulle cartine risulta alto 570 m, è menzionato in un diploma in latino del 1148 del conte Simone Aleramico, quando questi concede all'Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme la chiesa di Sant'Andrea e alcuni feudi e casali, tra i quali quelli di Gallinica delimitato dal torrente Fucello proveniente, appunto, dal monte Santa Croce.

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venerdì 31 agosto 2018

L'antenato del Palio

La Cavalcata di Piazza erede del Palio dei Bèrberi (o Bàrberi), anni '40

In questi ultimi mesi, durante alcune ricerche, mi sono imbattuto in quello che, secondo me, è l'antenato della Cavalcata degli anni 40/50 e del Palio dei Normanni moderno che si svolge ogni agosto lungo le strade, in piazza Teatro, in piazza Duomo/Cattedrale e al campo sportivo Sant'Ippolito nella nostra Città. Uno dei più importanti storici della nostra Città, l'avvocato Alceste Roccella (1827-1908), in uno dei 7 volumi della sua Storia di Piazza, e precisamente nel Volume Terzo Chiese e conventi ed istituti di Filantropia in Piazza Per Alceste Roccella, ci ricorda che ai suoi tempi, nella seconda metà dell'Ottocento, in estate veniva svolta una corsa di cavalli bèrberi. Questi cavalli erano originari della Barbéria, nome dato anticamente al Nord Africa perché abitato dal popolo dei Bàrberi, ed erano noti sin dall'antichità per la loro robustezza e velocità. Il Roccella non precisa né il giorno in cui si svolgeva la corsa, che assunse il nome di Palio dei Bèrberi o Bàrberi, né l'arrivo (forse a Costantino o allo Scarante), ma ci dice che la partenza avveniva dalla Commenda di San Giacomo d'Altopascio, davanti l'odierno ingresso principale del Cimitero Comunale della Bellia. Per questo devo ritenere che il Palio si svolgesse il 25 luglio, festa di San Giacomo il Maggiore apostolo. Le caratteristiche principali di queste corse erano tre. La corsa era prettamente rettilinea, pertanto si raggiungevano alte velocità; veniva attraversato pericolosamente il centro abitato da nord a sud senza barriere di contenimento ai lati del percorso; inizialmente i cavalli correvano "scossi", ovvero senza fantini, in seguito si decise di montarli, ma senza l'ausilio di selle, "a pelo" (come nella foto). Questo genere di corse rappresentavano la parte principale delle feste popolari in tantissime località italiane, la più famosa è quella che si svolge due volte l'anno a Siena, ma una si volge anche nella vicina Calascibetta e l'anno scorso si è svolta il 3 settembre per la festa a Maria Santissima di Buonriposo. Un'altra vicino a noi era quella di Caltagirone, che partiva dallo spiazzo antistante il convento di San Francesco di Paola e aveva la simpatica caratteristica che prima della stessa venivano distribuiti confetti a gentildonne e gentiluomini cittadini e forestieri.

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mercoledì 22 agosto 2018

Fontana Villa Laspina/n. 67

La Fontana n. 67
Cancello d'ingresso di Villa Laspina - Aidone (En)

Questa è la Fontana n. 67 fotografata dall'esterno della Villa Laspina lungo la SS288 che collega Aidone a Raddusa. Questa villa si trova a ca. 3 Km da Aidone e a 500 m a ovest, in linea d'aria, dalla zona archeologica di Morgantina. Prima di assumere questo nome, ne aveva avuto altri due per essere stata di proprietà prima della famiglia Ranfaldi (esiste una foto degli anni Trenta con la scritta sul cancello d'ingresso "F. RANFALDI") e, poi, Toscano. La Fontana è chiaramente recente ed è formata da una semplice vasca in muratura, su cui dovrebbe cadere l'acqua da 4 canali, che sembrano degli antichi doccioni o gargolle (in francese gargouilles, in inglese gargoyles) recuperati da altri siti.

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mercoledì 11 luglio 2018

Edicola n. 59

L'Edicola Votiva n. 59, rappresentata da una statua della Madonna poggiata su un grosso masso, è quella che si trova davanti la chiesa del Gran Priorato di Sant'Andrea. A proposito del periodo di costruzione di questo Gran Priorato prima fuori le mura della Città, lo storico Litterio Villari nella sua opera Storia Ecclesiastica della città di Piazza Armerina del 1989, a p. 139, ci dice che "il conte Simone¹ fondò e dotò la chiesa al tempo in cui Ruggero era re di Sicilia² (e quindi dopo il 1130); poi la legò in perpetuo alla chiesa patriarcale del S. Sepolcro nel 1148 con il diploma già ricordato. Sapendo inoltre che il conte Simone successe al padre nel governo dei Lombardi di Sicilia dopo l'anno 1137, dobbiamo cercare l'anno di fondazione tra il 1137 ed il 1148". Pertanto, è da considerare tra gli edifici ecclesiastici più antichi ospitati nel nostro centro abitato, assieme alla chiesa di San Martino di Tours e al campanile della chiesa di Santa Maria nel borgo Patrisanto poi di San Lorenzo o dei Teatini.
¹ Simone Aleramico o del Vasto (primi decenni del 1100 - 1156) conte di Policastro, di Butera e di Paternò, signore di Cerami.
² Ruggero II d'Altavilla (1095-1154) re di Sicilia dal 1130 al 1154.

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giovedì 21 giugno 2018

Fontana Outlet Village/n. 66


Questa è la Fontana n. 66 ed è la seconda (dopo la n. 65) che troviamo nel Sicilia Outlet Village, a poche centinaia di metri dalla stazione ferroviaria di Dittaino. Il Centro Commerciale è stato costruito nel 2010 e ogni anno registra un aumento nell'affluenza di clienti da tutta l'Isola. Ormai è un sito compreso nel "gran tour" dello shopping-turistico siciliano che, assieme a tutti gli altri, accoglie clienti convinti di fare ottimi acquisti a prezzi imbattibili. Quello che è difficile da spiegarsi è come mai in questi anni di "drammatica crisi", sbandierata ai quattro venti, questi centri commerciali siano presi sempre d'assalto e frequentatissimi, senza contare che occorre raggiungerli in auto, ovviamente di ultima generazione, percorrendo decine e decine di chilometri. C'è qualcosa che mi sfugge!

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venerdì 15 giugno 2018

8 Donne da ricordare


                                      Dov'era la Porta dell'Ospedale nell'odierna via Roma

8 DONNE DA RICORDARE
(Monte di Prestami, 10 marzo 2018)

In questi anni in cui mi sono occupato della storia di Piazza, mi sono imbattuto in diverse donne piazzesi dalla forte personalità e carattere. In questa occasione non voglio riproporre le tante che hanno lasciato un segno in ambito ecclesiastico, come Serve di Dio, beate, suore, monache e fondatrici di istituti religiosi, bensì ricorderò alcune donne che si sono distinte nel raggiungimento di obiettivi che si pensa siano declinati esclusivamente al maschile. Inizio con due donne, madre e figlia, Giacoma e Graziana Villardita, cognome che poi si trasformerà nell’odierno Velardita. (continua)

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domenica 10 giugno 2018

'Ngiulìnu u bersaglièr-6 (ultima parte)

L'onorificenza di Cavaliere dell'Ordine di Vittorio Veneto arrivata al bersagliere Angelo Masuzzo dopo più di mezzo secolo dalla fine della Grande Guerra

La storia vera di un giovane di cento anni fa - 6 (ultima parte)

(continua dlla 5^ Parte) <<Lo scambio di colpi era iniziato al mattino ed era continuato per tutta la giornata. Verso sera il bombardamento era quasi cessato ed ora i colpi provenivano solo dalla parte degli alleati, segno che la zona dei tedeschi era stata quasi del tutto neutralizzata. Ma nessuno osava mettere fuori il naso dalla grotta. Bisognava aspettare che tutto fosse tranquillo e che non si sentissero né spari, né passaggi di carri armati od altri mezzi militari. Era ormai completamente buio e dentro la grotta era stato acceso un microscopico lumicino tanto per dar da mangiare ai bambini. Poi, all’improvviso, sentirono muovere le assi che chiudevano l’ingresso. Videro due uomini davanti e, malgrado il buio, ‘Ngiulìnu riconobbe subito che si trattava di due tedeschi. Pensò che li avrebbero fatti fuori con un paio di granate e poi sarebbero andati via, ed invece i due entrarono e rinchiusero la grotta. Attraverso il lumicino ‘Ngiulìnu notò che si trattava di due ufficiali con ancora la pistola al fianco. Avevano gli occhi quasi spiritati e con gesti cercavano di far capire ai civili di non aver paura. Probabilmente si trattava di due comandanti del reparto di artiglieri che stavano sulla collina, ma non si capiva come mai fossero arrivati fino a lì. Visto come stavano le cose, ‘Ngiulìnu prese dell’acqua, un po’ di pane, del salame, dei pomodori, dei fichi e li offrì ai due. Non erano feriti, ma entrambi tremavano come foglie tanto che non riuscivano neanche a bere. Dopo essersi un po’ rifocillati, allungarono un po’ le gambe in quell’angusto spazio e poi, all’improvviso, uno dei due scoppiò in un incontrollabile pianto. Era veramente strano, soprattutto per ‘Ngiulìnu che molti anni prima aveva combattuto contro i tedeschi, vedere un uomo così alto e robusto ridotto in quello stato. Subito dopo estrasse dalla tasca un portafoglio e mostrò a tutti le foto in cui vi erano moglie e due figlie. ‘Ngiulìnu allora avvicinò il lumicino e volle che tutti osservassero quelle foto a conferma che anche il più acerrimo nemico ha sempre un cuore e degli affetti a cui rivolgere il pensiero. Ormai era calato il silenzio. Niente cannoni, carri armati o spari. Era comparsa anche la luna la cui luce filtrava tra le assi dell’ingresso. Allora tutti, compresi i due ufficiali, pian piano si addormentarono. Era stata una terribile giornata, sia per i civili che per i militari. Al mattino, il primo a svegliarsi fu ‘Ngiulìnu, anche perché era il più vicino all’ingresso ed il sole era già sorto. Si guardò intorno e non vide più i due tedeschi. Erano andati via nel più assoluto silenzio mettendo al loro posto anche le assi. In un angolo ‘Ngiulìnu vide due scatolette. Erano due confezioni di marmellata lasciate dai due ufficiali per dir loro grazie. Subito dopo la terra incominciò a tremare. Uscirono tutti dalla grotta e videro decine di carri armati che risalivano verso Nord. Erano gli alleati che avanzavano. I tedeschi erano in ritirata, ma lungo la Piana di Catania avrebbero bloccato per più di un mese gli americani. Prima di arrivare a Messina ed attraversare lo Stretto vi sarebbero stati altri morti da ambo le parti. ‘Ngiulìnu rivolse il pensiero ai due ufficiali tedeschi. Erano riusciti a raggiungere i compagni? Erano stati fatti prigionieri dagli alleati? Oppure, per loro la guerra era finita tragicamente proprio quella mattina? A proposito di guerre e di tragedie mondiali, non so se vi è mai capitato di visitare un cimitero in Trentino, in Alto Adige, Austria, Germania, ecc. Lì tutto è perfettamente in ordine e ben curato. Le tombe sono perfettamente allineate e ben tenute. Nel mondo Tirolese, addirittura davanti ad ogni tomba vi è una piccola ciotola in metallo o in marmo dove vi è dell’acqua benedetta con un piccolo rametto. In questo modo i famigliari o anche i passanti possono fermarsi per una preghiera e “benedire” i defunti. Al sud i cimiteri rispecchiano invece quello che accade nelle città: stesso disordine, confusione e nessuna cura. Spesso, è possibile vedere alcune tombe trasformate in veri e propri santuari del cattivo gusto con tendine, merletti, fiori di plastica, cancelli, cancelletti, porticine con vetri colorati, ed altre schifezze. Un giorno, un nipote di ‘Ngiulìnu scoprì, tra le varie tombe disseminate nei vari prati incolti, una piccola lapide del tutto ricoperta da erbacce e rovi con una scritta in tedesco. Si trattava di un militare austriaco della prima guerra mondiale che, chissà per quale stranissima combinazione, era stato sepolto proprio lì. Di chiedere spiegazioni alla direzione del cimitero neanche parlarne perché si sapeva già che nessuna documentazione era aggiornata, oltre al fatto che i pochi addetti erano sempre impegnati a leggere la “Gazzetta dello Sport”! Al ragazzo non rimase altro che tagliare l’erba che aveva nascosto alla vista la tomba di questo sventurato militare, fare un po’ di pulizia ed ogni tanto portare un lumino e dei fiori>>. Angelo MASUZZO, nipote più anziano di 'Ngiulìnu

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sabato 2 giugno 2018

'Ngiulìnu u bersaglièr-5

Monte Mangone di fronte Piazza Vecchia, dove 'Ngiulìnu scavò le due grotte per rifugiarsi con la famiglia dal bombardamento

La storia vera di un giovane di cento anni fa - 5

(continua dalla 4^ Parte) <<Completate le procedure e firmati gli accordi per la spartizione dei territori tra le Nazioni vincitrici e quelle sconfitte, i soldati pian piano vennero mandati a casa. Purtroppo il capitano Rapisarda non poté scendere al sud assieme ai suoi, ed allora consegnò una lettera a ‘Ngiulìnu da portare ai suoi genitori. Infatti, era stato promosso colonnello ed avrebbe dovuto fermarsi per almeno altri quattro mesi nella sede di Verona. ‘Ngiulìnu partì in treno assieme ai suoi compagni attraversando di nuovo tutta l’Italia. Impiegarono quattro giorni per raggiungere Catania e poi ognuno proseguì per il proprio paese. ‘Ngiulìnu però doveva prima recapitare la busta alla famiglia del capitano. I genitori abitavano in pieno centro in un lussuoso palazzo. Quando bussò alla porta, venne ad aprire un cameriera che guardò con sospetto quel ragazzo magro, sporco e con una divisa che gli penzolava addosso. La consegna della busta, riempì di gioia i genitori che vollero a tutti i costi che ‘Ngiulìnu di fermasse a pranzo da loro. Non poté rifiutare, ma prima, arrossendo come un gambero, chiese se poteva fare un bagno perché dopo quattro giorni di treno a vapore non era proprio avvicinabile. Il giorno dopo finalmente vi fu il ritorno a casa dai propri genitori. Tra i tanti che partirono per il fronte, e i pochi che ritornarono vivi, il bersagliere ‘Ngiulìnu, classe 1893, del X Bersaglieri-Arditi, portò con se solo l’orologio da tasca, che risultò l’unica ricompensa, oltre alla medaglia di Cavaliere di Vittorio Veneto che gli fu consegnata dopo tanti anni. Invece aspettò invano il premio dell'assicurazione di 1.000 lire che gli sarebbe toccato come reduce di guerra! La guerra finì nel 1918 ed i reduci abili al lavoro si preparavano ad affrontare una nuova vita. Erano ragazzi che non avevano potuto trascorrere una serena gioventù a causa degli eventi bellici ed ora speravano in un mondo migliore. Nessuno avrebbe mai immaginato che il loro destino sarebbe stato deciso da due uomini, uno italiano e l’altro austriaco. Il primo, nato nel 1883 a Predappio e deceduto il 29 luglio 1945, l’altro, nato il 20 aprile 1889 in Austria, esattamente a Braunau am Inn, vicino a Linz e deceduto a Berlino il 30 aprile 1945. Entrambi, per nostra fortuna, morirono in circostanze drammatiche, ma prima ebbero il tempo di portare a morte milioni di uomini e donne sconvolgendo completamente il mondo intero. Tuttavia i morti e le sofferenze patite dal genere umano nel 1914-‘18, furono niente rispetto a quello che successe nei cinque continenti nei terribili anni 1940-‘45. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, ‘Ngiulìnu aveva ormai 47 anni e non venne richiamato alle armi. Dovette però assaporare da molto vicino gli orrori di questo nuovo conflitto perché, per una serie di sfortunate circostanze, si ritrovò proprio in mezzo alla battaglia. Quando, infatti, vi fu il famoso sbarco in Sicilia delle truppe alleate, esattamente a Gela, i tedeschi opposero una forte resistenza tanto da rivoluzionare completamente i piani degli invasori. ‘Ngiulìnu e la sua famiglia, trovandosi in una zona dove sicuramente vi sarebbero stati passaggi di truppe tedesche in ritirata decisero, assieme ad altri vicini di casa, di spostarsi in una località lontana dalla città e di sistemarsi in due casette in campagna. I primi giorni fu come essere in villeggiatura. La gente si ritrovava sotto grandi alberi di fichi per pranzo e cena; i ragazzini scorrazzavano in lungo e in largo e tra i grandicelli scoppiavano i primi amori. Una mattina, con loro grande stupore, videro che in cima ad una collina, gli artiglieri tedeschi stavano sistemando dei cannoni. Rimasero tutti a guardare, ma non ebbero nemmeno il tempo di decidere su cosa fare che all’improvviso, da una zona molto lontana, sentirono un grosso frastuono; erano delle potentissime cannonate sparate dagli alleati che avevano già individuato la postazione nemica cercando di colpirla. Immediatamente i tedeschi incominciarono a rispondere al fuoco, solo che i primi tiri non erano molto precisi e, soprattutto quelli degli alleati, erano ancora molto corti tanto che alcuni caddero molto vicini alle due casette di ‘Ngiulìnu ed amici costringendoli a ripararsi vicino ad un terrapieno. Tutti erano atterriti e ‘Ngiulìnu ricorda bene che riuscivano a vedere la traiettoria delle bombe che arrivavano e quelle che partivano in risposta dei tedeschi. Poi, all’improvviso vi fu il finimondo. Due grossi obici, come se fossero stati teleguidati, colpirono con precisione le due casette, distruggendo tutto e lasciando solo macerie. Il gruppo era terrorizzato ed allora ‘Ngiulìnu, visto che la battaglia continuava senza interruzione, suggerì ai capifamiglia di incominciare a scavare una grotta nel terrapieno lì vicino perché, se vi fosse stato un altro tiro ancora più preciso, di quelle 12 persone non si sarebbe trovato più nulla. Fu così che, tra una bomba e l’altra, tutti si misero a scavare mentre le donne cercavano di recuperare quanto più materiale possibile da portare via dalle macerie. In poche ore ‘Ngiulìnu e gli altri avevano scavato una grotta così ampia da poter ospitare tutta la compagnia. All’ingresso furono sistemate delle assi e qualche sacchetto di sabbia per attutire eventuali schegge vaganti >>. (continua) Angelo MASUZZO
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sabato 26 maggio 2018

'Ngiulìnu u bersaglièr-4

L'orologio che 'Ngiulìnu portò con sè alla fine della Grande Guerra
  
La storia vera di un giovane di cento anni fa - 4

(continua dalla 3^ Parte) <<‘Ngiulìnu era preoccupatissimo perché temeva che se vi fosse stato un grosso ematoma non curato bene, l’unica soluzione, considerati i metodi spicciativi dovuti alle numerose urgenze a cui erano sottoposti i medici, sarebbe stata l’amputazione. E invece anche qui intervenne qualcuno a salvarlo. Un infermiere di origine sarda, proveniente da una famiglia che da generazioni allevava pecore e capre, gli disse che nella sua zona, quando qualcuno aveva simili mali, si usava fare una pastella con argilla e alcune piante speciali che solo loro conoscevano. L’argilla era facilmente reperibile, solo che non sapeva se in quelle zone fosse possibile trovare la stessa qualità di erbe. Il pomeriggio, approfittando di una breve pausa, il pastorello si mise alla ricerca di erbe e fortunatamente, in serata ne aveva già trovato un bel mazzo. Fece bollire il tutto assieme a del vino e poi preparò l’impacco con l’argilla. Quando lo mise sopra al ginocchio, a ‘Ngiulìnu sembrò che la gamba dovesse cadergli da un momento all’altro. Sentì un forte calore proveniente dall’interno come se gli stesse ribollendo tutto, tanto che voleva strapparsi la fasciatura, ma il ragazzo gli disse di resistere, perché quello era l’effetto giusto. Per tutta la notte ‘Ngiulìnu ebbe la febbre altissima. Ogni tanto l’infermiere gli portava uno straccio bagnato da mettere sulla fronte, ma il beneficio durava solo pochi minuti. Al mattino, l’impacco era secco come il cemento. L’infermiere disse che secondo lui tutto era andato come previsto e l’argilla e le erbe avevano assorbito tutto il male. La cosa venne confermata dal medico di guardia il quale si complimentò con il giovane soldato dicendogli, sotto voce, di tener pronto un preparato simile per altre evenienze. Infatti, erano diversi giorni che in infermeria scarseggiava tutto, e ogni rimedio utile avrebbe fatto comodo. A dir la verità il ginocchio non era del tutto sgonfio, ma ora aveva un bel colorito roseo ed in più, alzandosi, ‘Ngiulìnu non sentiva  dolore. Dopo qualche giorno i medici decisero di mandarlo in un ospedale ancora di più nelle retrovie, perché così conciato non era utilizzabile in battaglia. L’ospedale doveva trovarsi in Veneto al confine con il Trentino ma ‘Ngiulìnu, non avendo studiato, non era in grado di leggere una cartina geografica e quindi per lui tutti i posti andavano bene. L’importante era poter restare alla larga da bombe, baionette e reticolati. Nel frattempo le cose per le armate italiane si erano messe bene. Le truppe austro-ungariche battevano in ritirata e l’esercito italiano si accingeva a spingersi sempre più a nord. Ormai il nostro bersagliere si era completamente ristabilito e venne mandato subito al fronte. Stavolta si trattava di arrivare fino alle porte di Trento e di ripulire la zona spingendo il nemico verso il Brennero. Il tre novembre 1918 la sua Compagnia fu tra le prime che entrarono nella città di Trento, ma ancora vi erano contatti con le retroguardie nemiche che si erano attardate in zona. All’improvviso, la Compagnia di ‘Ngiulìnu ebbe uno scontro a fuoco con delle truppe dell’Impero. Il tutto durò una mezz’ora perché i soldati austriaci erano ormai stremati e privi di munizioni, e alla fine vennero fatti molti prigionieri che furono radunati in una piazza. Tutti furono disarmati e dovettero anche svuotare completamente le loro tasche di ogni cosa. Emersero così foto di mogli e figli, sigarette, pipe, coltellini, orologi, ecc. Intanto si era messo a piovere, gli sventurati prigionieri erano stati costretti a rimanere seduti per terra sotto l’acqua guardando da lontano il mucchio dei loro effetti personali, mentre i nostri si erano riparati sotto dei portici. All’improvviso apparvero degli autocarri. Dal primo scese come un diavolo il solito capitano Bassi il quale, gridando come era solito fare, ordinò che i prigionieri salissero subito sui camion per essere portati via. Uno di loro, che parlava uno stentato italiano, chiese se almeno poteva riavere le foto della moglie e dei figli. Bassi sfoderò la pistola, gliela mise sotto la gola e gli disse che se non fosse salito subito sul camion l’avrebbe lasciato lì, ma da morto. Nel giro di due minuti il convoglio partì e al centro della piazza restò solo il mucchio dei ricordi dei prigionieri. A questo punto i nostri si avvicinarono e con molta delicatezza raccolsero in un sacco i documenti che poi avrebbero cercato di dare alla croce rossa affinché, a guerra finita, si tentasse di restituirli ai proprietari. Tutto quello che era “solido” il capitano Rapisarda permise ai soldati di prenderlo come ricordo. A ‘Ngiulìnu toccò un orologio da tasca completo di catena che rimise con cura nello zaino. Quest’orologio ebbe una storia tutta particolare. Alla fine della guerra, ritornato in Sicilia (sì, perché ‘Ngiulìnu riuscì a ritornare vivo e tutto intero a casa) tenne per sé l’orologio donandolo, alla sua morte, a uno dei figli. L’orologio funzionò benissimo per anni ed anni e non diede mai problemi. Solo una volta fu portato da un orologiaio per una revisione e lì si scoprì che all’interno vi era una scritta in lingua tedesca che nessuno purtroppo seppe tradurre. Dopo molti anni, una collega di un nipote, di origine austriaca, riuscì a decifrare la scritta scoprendo che il proprietario non era un austriaco ma un ungherese di Budapest. Purtroppo non vi era nessun indirizzo, ma sarebbe stato interessante riuscire a rintracciare il legittimo proprietario o un suo erede, stringergli la mano e restituire l’oggetto. Finalmente la guerra ebbe fine e tutti poterono tirare un sospiro di sollievo e rimettersi a posto da tutti i mali accumulati negli anni precedenti. La Compagnia di ‘Ngiulìnu fu mandata a riposare su un altipiano sopra Bolzano in attesa di nuovi ordini. Infatti, le truppe italiane non si erano fermate a Trento, ma avevano oltrepassato tutta la zona di Bolzano arrivando al passo del Brennero e scendendo fino a Innsbruck. Era inverno e finalmente ‘Ngiulìnu poté assaporare quanto era divertente stare in mezzo alla neve non da guerriero, ma da turista. Osservando le abitudini degli abitanti del posto, scoprì come era piacevole scendere per i sentieri innevati a bordo di una slitta. All’inizio vi fu qualche leggero incidente andando a sbattere contro un albero nelle curve più strette ma in seguito, anche con la partecipazione del capitano Rapisarda, fu più facile scendere e poi frenare in due. In pratica lo slittino era diventato il passatempo di tutti. Scendevano a turno per i pendii e alle volte battevano in velocità anche i locali>>. (continua) Angelo MASUZZO
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domenica 20 maggio 2018

'Ngiulìnu u bersaglièr-3

Moschetto Mod. 91 per Cavalleria (e Bersaglieri) più corto e leggero del Fucile Mod. 91

La storia vera di un giovane Piazzese di cento anni fa - 3

(continua dalla Parte 2) <<‘Ngiulìnu aprì gli occhi di nuovo quando ormai era completamente buio. Si chiese se era già cadavere o se stava respirando ancora. Fece quindi una breve ricognizione del suo corpo. Gamba destra sempre “andata” e spalla con grandi fitte, forse da proiettile. Invece il sangue che gli colava sul collo si era fermato e non sentiva più quel sapore dolciastro. Cercò di muovere la testa per guardarsi intorno. Vedeva solo le luci dei razzi che il nemico lanciava dalla collina ed udiva qualche colpo di fucile. Capì subito che anche quest’attacco era andato male. Gli austriaci erano ancora sulle loro posizioni mentre loro si erano dovuti ritirare per la terza volta. Purtroppo non era stata concordata nessuna tregua e quando qualche ferito tentava di muoversi, subito veniva fatto secco dai cecchini. Era la sorte che sarebbe toccata anche a ‘Ngiulìnu se avesse fatto qualche movimento, ma “per fortuna” lui era bloccato sia per la gamba nella buca, sia per la spalla ed anche per i due compagni che ancora gli stavano addosso. Probabilmente svenne un’altra volta, e quando si risvegliò vi era uno strano silenzio. I razzi venivano lanciati molto raramente (ormai anche tutti i feriti erano stati messi a tacere) ed attorno a lui riusciva a vedere solo cadaveri in posizioni strane. Visto che aveva un braccio ed una gamba ancora funzionanti decise di tentare qualche piccolo movimento in modo da controllare lo stato delle sue ferite. Per prima cosa diede uno strattone ad uno dei due corpi che gli stavano addosso. Il poveretto rotolò di fianco e non fece un gemito. Dell’altro fu ancora più facile liberarsene perché era privo di entrambe le gambe che giacevano a qualche metro! Ora riusciva a toccarsi il collo, ma non notava nessuna ferita. Il sangue che lo aveva completamente ricoperto apparteneva ai due poveretti. Tentò allora di controllare la gamba. Impresa difficile e pericolosa. Doveva stare attento ai razzi ed ai cecchini. Alla fine riuscì a tirarla fuori con un dolore lancinante, ma non doveva essere rotta perché altrimenti sarebbe svenuto dal dolore, mentre questo era abbastanza sopportabile. E adesso cosa fare? Se fosse rimasto lì fino al giorno dopo, al primo movimento sarebbe stato fatto secco, quindi non rimaneva altro che tentare di ritornare in trincea muovendosi molto lentamente ed approfittando dei momenti privi di razzi. Questo fu un vero calvario. Si muoveva attraverso cadaveri, fango e fucili. Ogni metro conquistato verso la salvezza voleva dire fitte lancinanti alla spalla ed alla gamba. Era tutto sudato e nello stesso tempo ricoperto completamente di fango e sangue. Solo quando stava per albeggiare riuscì ad avvicinarsi ad una trincea amica. Qualcuno gli lanciò una corda, in quattro tirarono fortemente e finalmente riuscì a raggiungere la salvezza. Si buttò dentro la trincea a “corpo morto” mentre i commilitoni lo adagiavano su delle assi e gli davano un po’ d’acqua. Ma guardando quei visi si accorse che erano tutti sconosciuti. Parlavano italiano, avevano la sua stessa divisa, ma nessuno gli era famigliare. Tutto venne chiarito quando un sergente gli spiegò che quella non era la sua Compagnia, ma quella del capitano Bassi (la carogna). Probabilmente, nel tentare il rientro in trincea, si era spostato di qualche centinaio di metri ed era finito in un’altra zona. Lo portarono in una specie di grotta che serviva da infermeria. Due infermieri lo spogliarono ed il medico del campo lo visitò. Alla fine il referto fu che in pratica non aveva un bel niente, a parte la lussazione alla spalla ed una lacerazione al ginocchio. I proiettili lo avevano sfiorato, ma era tutto integro. Ma subito dopo venne il bello. All’improvviso si presentò il capitano Bassi che chiese notizie del nuovo arrivato. ‘Ngiulìnu aveva già capito che quell’essere stava per escogitarne una delle sue ed infatti, dopo avergli chiesto le generalità ed a quale Compagnia appartenesse, gli domandò dove fosse la sua arma (n.d.r. nella foto). Ancora seminudo, ‘Ngiulìnu rispose che gli era sfuggita di mano quando era caduto nella buca e che nel tornare indietro, in piena notte, gli era stato impossibile recuperarla. E poi, anche se ne fosse stato in possesso, avrebbe dovuta abbandonarla perché era impossibile strisciare nel fango con la spalla dolorante e la gamba gonfia come un pallone. Ma qui il capitano Bassi mise in mostra tutta la sua cattiveria. Gridando come un matto rimproverò il povero bersagliere dicendogli che mai avrebbe dovuto abbandonare l’arma, a costo della vita. A quel punto sarebbe stato meglio se fosse rimasto cadavere assieme agli altri! Un bersagliere senza la sua arma era inutile alla causa della Patria e quindi gli ordinava di ritornare indietro immediatamente a recuperare il fucile. Il medico aveva sgranato gli occhi, come a dire: “se questo fa un passo allo scoperto è già un uomo morto”, ma Bassi fu irremovibile. Disse che entro il pomeriggio il soldato doveva rientrare in possesso della sua arma, altrimenti l’avrebbe messo agli arresti, anche se era in infermeria. ‘Ngiulìnu allora si alzò dalla lurida barella dove l’avevano adagiato e dolorante si avviò verso la trincea sapendo che appena avrebbe messo fuori la testa tutto sarebbe finito. Ed invece, anche questa volta avvenne il miracolo. Il capitano venne chiamato subito a rapporto dal colonnello, probabilmente per trovare un’altra strategia d’attacco, e dovette andar via. A quel punto il medico gli consigliò di rimanere lì disteso e di tentare il recupero non appena avesse fatto buio. E così avvenne. Nel pieno della notte ‘Ngiulìnu strisciò solo per alcuni metri fuori, ed il primo fucile che vide lo agguantò e lo riportò indietro. Il sergente di guardia scrisse che l’ordine del Capitano era stato eseguito e finalmente il nostro bersagliere fu accompagnato, sorretto da due colleghi, fino alla sua Compagnia. Qui era stato già inserito tra i dispersi in guerra, e grande fu la gioia quando poterono riabbracciarlo. Purtroppo non fu così per il suo amico Giovanni e, come ogni volta, al capitano Rapisarda toccò l’ingrato compito di scrivere ai genitori per comunicare la triste notizia. Nell’infermeria della Compagnia a ‘Ngiulìnu venne immobilizzata la spalla e curata la ferita al ginocchio; arto che ora si era gonfiato a tal punto che avevano dovuto aprire completamente il pantalone fin quasi all’inguine. Il giorno dopo, assieme ad altri feriti, venne mandato nelle retrovie per rimettersi al più presto possibile e poter così ritornare a “guerreggiar”. Ma il ginocchio non voleva sentirne di ritornare alle misure normali: era sempre gonfio ed aveva assunto un colore bluastro>>. (continua) Angelo MASUZZO, nipote più anziano di 'Ngiulìddu
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lunedì 14 maggio 2018

'Ngiulìnu u bersaglièr-2

'Ngiulìnu (Angelo) MASUZZO, X Bersaglieri-Arditi (1893-1981)

La storia vera di un giovane Piazzese di cento anni fa - 2

(continua dalla Parte 1) <<Completamente diverso era il Capitano della Compagnia parallela a quella di ‘Ngiulìnu. Il Capitano Bassi era una vera carogna. Ogni mattina vi erano decine di puniti per ogni minima sciocchezza. Pretendeva, da uomini che dormivano per terra, a volte in mezzo al fango e che si alimentavano con minestre acquose e gallette, che tutti avessero le divise sempre in ordine, gli zaini appesi al posto giusto e che scattassero sull’attenti ogni volta che si avvicinava ad un plotone. Bassi, inoltre, proveniva da una famiglia nobile. Il padre era un generale, il nonno materno un magistrato e la nonna una docente universitaria. Quando il capitano era in riunione con gli altri colleghi, si notava subito come Bassi cercasse in tutti i modi di far notare che lui proveniva da ambienti diversi e questo non faceva altro che indispettire i colleghi che non mancavano mai di lanciare battute sferzanti ad alta voce in modo che l’interessato potesse sentirle. Come sappiamo, durante la prima guerra mondiale, non vi era tanto rispetto per la vita dei soldati, e questa valeva sia per il nostro esercito che per quello del nemico. Nella famosa “guerra di trincea” era normale mandare all’attacco 200 uomini per conquistare 100 metri di terreno e poi vederne tornare quasi la metà. Inoltre, nei vari ospedali da campo, ai feriti in battaglia, si aggiungevano quelli che venivano colpiti da congelamenti agli arti, da bronchiti che si trasformavano subito in polmoniti, o da interminabili attacchi di dissenteria causati dal freddo e dalla cattiva alimentazione. In tutto questo inferno, il nostro ‘Ngiulìnu era riuscito a farla franca sia durante le battaglie, sia per quanto riguarda le varie malattie. Quando uscivano dalla trincea e si lanciavano all’attacco, spesso vedeva cadere i suoi commilitoni a terra falciati dalle mitragliatrici nemiche. Alcuni erano così fortunati da cadere già morti, altri, feriti gravemente, rimanevano sul campo in attesa che venisse dichiarata una tregua di qualche ora per poter essere raccolti dai barellieri. Ma non sempre ciò accadeva, per cui chi rimaneva agonizzante, continuava a lamentarsi per tutta la notte senza che nessuno potesse andare ad aiutarlo. I gemiti dei feriti erano proprio la cosa più straziante. Quando si tornava in trincea, si faceva la conta dei “dispersi” e poi si rimaneva raggomitolati nei cappotti cercando di tapparsi le orecchie per non sentire quei terribili lamenti. Per conquistare il terreno che si trovava a circa 400 metri dalla loro postazione, vi erano già stati due tentativi andati a vuoto ed il comando generale era veramente deluso dal comportamento dei suoi. Era stato quindi emanato un ordine perentorio in cui si diceva che quella collina doveva a tutti i costi essere presa perché era di “importanza vitale” per il prosieguo della campagna militare. Tutti i capitani vennero chiamati a rapporto dal colonnello il quale escogitò un piano per poter finalmente insediarsi in cima alla collina. Del fatto che gli austro-ungarici avessero postazioni di mitragliatrici in ogni buca, mortai e centinaia e centinaia di metri di filo spinato a protezione, non preoccupava affatto il comando. Più di cinquanta bersaglieri erano stati dotati di cesoie che dovevano servire a tagliare le protezioni. Questo, a patto che riuscissero a raggiungere la meta, cosa alquanto difficile vista la forza di fuoco in dotazione al nemico. Purtroppo una di queste cesoie venne data anche al nostro ‘Ngiulìnu. Questo voleva dire essere in prima fila, correre velocemente, lanciare alcune bombe a mano e poi, raggiunti i reticolati, tagliarne quanto più possibile, in modo da permettere ai compagni di avanzare e conquistare l’obiettivo. Questo sulla carta era semplicissimo da spiegare; tutt’altra cosa era poi la pratica. La notte prima dell’attacco, nessuno dormì. Il capitano Rapisarda scrisse lettere per ore ed ore, compresa quella per i genitori di ‘Ngiulìnu, proprio perché tutti avevano capito che la sera dopo vi sarebbero stati ampi spazi vuoti nelle nostre trincee e che la collina non sarebbe stata conquistata. Rapisarda aveva chiesto che l’attacco fosse preceduto da un intenso fuoco di sbarramento in modo da liberare il più possibile il terreno dai reticolati, ma il colonnello rispose che al massimo vi sarebbero stati dei tiri di mortaio perché l’artiglieria era impegnata in zone più importanti. Al mattino presto, quando ancora era buio, il cappellano militare celebrò la messa e quasi tutti fecero la comunione. Poi si controllarono i fucili, ‘Ngiulìnu mise nella cintura la cesoia e fumò una sigaretta, per metà lui e per metà con il suo caro amico Giovanni con il quale aveva condiviso tutta la carriera militare. Rapisarda fece un breve discorso ai suoi uomini. Disse che era sicuro che si sarebbero comportati da eroi e sperava che in serata sarebbero stati tutti in cima alla collina. Quando venne dato l’ordine d’attacco, erano stati sparati solo una cinquantina di colpi di mortaio che non avevano fatto neanche il solletico ai reticolati. Davanti a loro vi era un terreno fangoso e pieno di enormi buche causate dagli attacchi precedenti. Bisognava quindi procedere a zig zag cercando di non infilarsi in qualche cratere. Non appena furono a tiro, le mitragliatici incominciarono a crepitare. ‘Ngiulìnu avanzava con il fucile in mano sparando e lanciando tutto quello che poteva. Alla sua sinistra vi erano stati i primi caduti e poi, all’improvviso, sentì un urlo fortissimo proveniente dal sua amico Giovanni che si trovava alla sua destra. Giovanni cadde a terra con tutto l’addome squarciato e ‘Ngiulìnu capì subito che per lui era finita. Si era voltato per un ultimo saluto al suo amico, ma proprio in quel momento la sua gamba destra si infilò in una buca facendolo cadere a faccia in giù, mentre il fucile gli sfuggiva di mano. Sentì un fortissimo dolore alla spalla destra e poi non vide più nulla perché il viso fu sommerso dal fango. Qualche secondo dopo gli vennero addosso due corpi che lo coprirono completamente impedendogli qualsiasi movimento. Il guaio era che una gamba era dentro la buca e l’altra quasi del tutto fuori; inoltre, con quei due corpi sulle spalle era impossibile muoversi, ma non ebbe il tempo di formulare altri pensieri perché subito dopo svenne. Quando riaprì gli occhi era quasi buio. Riusciva a vedere qualche cosa solo con un occhio ed era completamente immobilizzato. La gamba destra non la sentiva, segno che ormai era “persa”, mentre dal collo sentiva colare del sangue che gli arrivava fino alla bocca, segno che era stato colpito forse alla testa. Non rimaneva altro da fare che aspettare un po’ e poi tutto sarebbe finito. L’ultima cosa che ricordava era il grido lanciato dal suo amico Giovanni. Fra poco si sarebbero incontrati lassù e chissà quante risate!>> (continua) Angelo MASUZZO, nipote più anziano di 'Ngiulìnu
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