'Ngiulìnu (Angelo) MASUZZO, X Bersaglieri-Arditi (1893-1981)
La storia vera di un giovane Piazzese di cento anni fa - 2
(continua dalla Parte 1) <<Completamente diverso era il Capitano della Compagnia parallela a quella di ‘Ngiulìnu. Il Capitano Bassi era una vera carogna. Ogni mattina vi erano decine di puniti per ogni minima sciocchezza. Pretendeva, da uomini che dormivano per terra, a volte in mezzo al fango e che si alimentavano con minestre acquose e gallette, che tutti avessero le divise sempre in ordine, gli zaini appesi al posto giusto e che scattassero sull’attenti ogni volta che si avvicinava ad un plotone. Bassi, inoltre, proveniva da una famiglia nobile. Il padre era un generale, il nonno materno un magistrato e la nonna una docente universitaria. Quando il capitano era in riunione con gli altri colleghi, si notava subito come Bassi cercasse in tutti i modi di far notare che lui proveniva da ambienti diversi e questo non faceva altro che indispettire i colleghi che non mancavano mai di lanciare battute sferzanti ad alta voce in modo che l’interessato potesse sentirle. Come sappiamo, durante la prima guerra mondiale, non vi era tanto rispetto per la vita dei soldati, e questa valeva sia per il nostro esercito che per quello del nemico. Nella famosa “guerra di trincea” era normale mandare all’attacco 200 uomini per conquistare 100 metri di terreno e poi vederne tornare quasi la metà. Inoltre, nei vari ospedali da campo, ai feriti in battaglia, si aggiungevano quelli che venivano colpiti da congelamenti agli arti, da bronchiti che si trasformavano subito in polmoniti, o da interminabili attacchi di dissenteria causati dal freddo e dalla cattiva alimentazione. In tutto questo inferno, il nostro ‘Ngiulìnu era riuscito a farla franca sia durante le battaglie, sia per quanto riguarda le varie malattie. Quando uscivano dalla trincea e si lanciavano all’attacco, spesso vedeva cadere i suoi commilitoni a terra falciati dalle mitragliatrici nemiche. Alcuni erano così fortunati da cadere già morti, altri, feriti gravemente, rimanevano sul campo in attesa che venisse dichiarata una tregua di qualche ora per poter essere raccolti dai barellieri. Ma non sempre ciò accadeva, per cui chi rimaneva agonizzante, continuava a lamentarsi per tutta la notte senza che nessuno potesse andare ad aiutarlo. I gemiti dei feriti erano proprio la cosa più straziante. Quando si tornava in trincea, si faceva la conta dei “dispersi” e poi si rimaneva raggomitolati nei cappotti cercando di tapparsi le orecchie per non sentire quei terribili lamenti. Per conquistare il terreno che si trovava a circa 400 metri dalla loro postazione, vi erano già stati due tentativi andati a vuoto ed il comando generale era veramente deluso dal comportamento dei suoi. Era stato quindi emanato un ordine perentorio in cui si diceva che quella collina doveva a tutti i costi essere presa perché era di “importanza vitale” per il prosieguo della campagna militare. Tutti i capitani vennero chiamati a rapporto dal colonnello il quale escogitò un piano per poter finalmente insediarsi in cima alla collina. Del fatto che gli austro-ungarici avessero postazioni di mitragliatrici in ogni buca, mortai e centinaia e centinaia di metri di filo spinato a protezione, non preoccupava affatto il comando. Più di cinquanta bersaglieri erano stati dotati di cesoie che dovevano servire a tagliare le protezioni. Questo, a patto che riuscissero a raggiungere la meta, cosa alquanto difficile vista la forza di fuoco in dotazione al nemico. Purtroppo una di queste cesoie venne data anche al nostro ‘Ngiulìnu. Questo voleva dire essere in prima fila, correre velocemente, lanciare alcune bombe a mano e poi, raggiunti i reticolati, tagliarne quanto più possibile, in modo da permettere ai compagni di avanzare e conquistare l’obiettivo. Questo sulla carta era semplicissimo da spiegare; tutt’altra cosa era poi la pratica. La notte prima dell’attacco, nessuno dormì. Il capitano Rapisarda scrisse lettere per ore ed ore, compresa quella per i genitori di ‘Ngiulìnu, proprio perché tutti avevano capito che la sera dopo vi sarebbero stati ampi spazi vuoti nelle nostre trincee e che la collina non sarebbe stata conquistata. Rapisarda aveva chiesto che l’attacco fosse preceduto da un intenso fuoco di sbarramento in modo da liberare il più possibile il terreno dai reticolati, ma il colonnello rispose che al massimo vi sarebbero stati dei tiri di mortaio perché l’artiglieria era impegnata in zone più importanti. Al mattino presto, quando ancora era buio, il cappellano militare celebrò la messa e quasi tutti fecero la comunione. Poi si controllarono i fucili, ‘Ngiulìnu mise nella cintura la cesoia e fumò una sigaretta, per metà lui e per metà con il suo caro amico Giovanni con il quale aveva condiviso tutta la carriera militare. Rapisarda fece un breve discorso ai suoi uomini. Disse che era sicuro che si sarebbero comportati da eroi e sperava che in serata sarebbero stati tutti in cima alla collina. Quando venne dato l’ordine d’attacco, erano stati sparati solo una cinquantina di colpi di mortaio che non avevano fatto neanche il solletico ai reticolati. Davanti a loro vi era un terreno fangoso e pieno di enormi buche causate dagli attacchi precedenti. Bisognava quindi procedere a zig zag cercando di non infilarsi in qualche cratere. Non appena furono a tiro, le mitragliatici incominciarono a crepitare. ‘Ngiulìnu avanzava con il fucile in mano sparando e lanciando tutto quello che poteva. Alla sua sinistra vi erano stati i primi caduti e poi, all’improvviso, sentì un urlo fortissimo proveniente dal sua amico Giovanni che si trovava alla sua destra. Giovanni cadde a terra con tutto l’addome squarciato e ‘Ngiulìnu capì subito che per lui era finita. Si era voltato per un ultimo saluto al suo amico, ma proprio in quel momento la sua gamba destra si infilò in una buca facendolo cadere a faccia in giù, mentre il fucile gli sfuggiva di mano. Sentì un fortissimo dolore alla spalla destra e poi non vide più nulla perché il viso fu sommerso dal fango. Qualche secondo dopo gli vennero addosso due corpi che lo coprirono completamente impedendogli qualsiasi movimento. Il guaio era che una gamba era dentro la buca e l’altra quasi del tutto fuori; inoltre, con quei due corpi sulle spalle era impossibile muoversi, ma non ebbe il tempo di formulare altri pensieri perché subito dopo svenne. Quando riaprì gli occhi era quasi buio. Riusciva a vedere qualche cosa solo con un occhio ed era completamente immobilizzato. La gamba destra non la sentiva, segno che ormai era “persa”, mentre dal collo sentiva colare del sangue che gli arrivava fino alla bocca, segno che era stato colpito forse alla testa. Non rimaneva altro da fare che aspettare un po’ e poi tutto sarebbe finito. L’ultima cosa che ricordava era il grido lanciato dal suo amico Giovanni. Fra poco si sarebbero incontrati lassù e chissà quante risate!>> (continua) Angelo MASUZZO, nipote più anziano di 'Ngiulìnu
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