L'orologio che 'Ngiulìnu portò con sè alla fine della Grande Guerra
La storia vera di un giovane di cento anni fa - 4
(continua dalla 3^ Parte) <<‘Ngiulìnu era preoccupatissimo perché temeva che se vi fosse stato un grosso ematoma non curato bene, l’unica soluzione, considerati i metodi spicciativi dovuti alle numerose urgenze a cui erano sottoposti i medici, sarebbe stata l’amputazione. E invece anche qui intervenne qualcuno a salvarlo. Un infermiere di origine sarda, proveniente da una famiglia che da generazioni allevava pecore e capre, gli disse che nella sua zona, quando qualcuno aveva simili mali, si usava fare una pastella con argilla e alcune piante speciali che solo loro conoscevano. L’argilla era facilmente reperibile, solo che non sapeva se in quelle zone fosse possibile trovare la stessa qualità di erbe. Il pomeriggio, approfittando di una breve pausa, il pastorello si mise alla ricerca di erbe e fortunatamente, in serata ne aveva già trovato un bel mazzo. Fece bollire il tutto assieme a del vino e poi preparò l’impacco con l’argilla. Quando lo mise sopra al ginocchio, a ‘Ngiulìnu sembrò che la gamba dovesse cadergli da un momento all’altro. Sentì un forte calore proveniente dall’interno come se gli stesse ribollendo tutto, tanto che voleva strapparsi la fasciatura, ma il ragazzo gli disse di resistere, perché quello era l’effetto giusto. Per tutta la notte ‘Ngiulìnu ebbe la febbre altissima. Ogni tanto l’infermiere gli portava uno straccio bagnato da mettere sulla fronte, ma il beneficio durava solo pochi minuti. Al mattino, l’impacco era secco come il cemento. L’infermiere disse che secondo lui tutto era andato come previsto e l’argilla e le erbe avevano assorbito tutto il male. La cosa venne confermata dal medico di guardia il quale si complimentò con il giovane soldato dicendogli, sotto voce, di tener pronto un preparato simile per altre evenienze. Infatti, erano diversi giorni che in infermeria scarseggiava tutto, e ogni rimedio utile avrebbe fatto comodo. A dir la verità il ginocchio non era del tutto sgonfio, ma ora aveva un bel colorito roseo ed in più, alzandosi, ‘Ngiulìnu non sentiva dolore. Dopo qualche giorno i medici decisero di mandarlo in un ospedale ancora di più nelle retrovie, perché così conciato non era utilizzabile in battaglia. L’ospedale doveva trovarsi in Veneto al confine con il Trentino ma ‘Ngiulìnu, non avendo studiato, non era in grado di leggere una cartina geografica e quindi per lui tutti i posti andavano bene. L’importante era poter restare alla larga da bombe, baionette e reticolati. Nel frattempo le cose per le armate italiane si erano messe bene. Le truppe austro-ungariche battevano in ritirata e l’esercito italiano si accingeva a spingersi sempre più a nord. Ormai il nostro bersagliere si era completamente ristabilito e venne mandato subito al fronte. Stavolta si trattava di arrivare fino alle porte di Trento e di ripulire la zona spingendo il nemico verso il Brennero. Il tre novembre 1918 la sua Compagnia fu tra le prime che entrarono nella città di Trento, ma ancora vi erano contatti con le retroguardie nemiche che si erano attardate in zona. All’improvviso, la Compagnia di ‘Ngiulìnu ebbe uno scontro a fuoco con delle truppe dell’Impero. Il tutto durò una mezz’ora perché i soldati austriaci erano ormai stremati e privi di munizioni, e alla fine vennero fatti molti prigionieri che furono radunati in una piazza. Tutti furono disarmati e dovettero anche svuotare completamente le loro tasche di ogni cosa. Emersero così foto di mogli e figli, sigarette, pipe, coltellini, orologi, ecc. Intanto si era messo a piovere, gli sventurati prigionieri erano stati costretti a rimanere seduti per terra sotto l’acqua guardando da lontano il mucchio dei loro effetti personali, mentre i nostri si erano riparati sotto dei portici. All’improvviso apparvero degli autocarri. Dal primo scese come un diavolo il solito capitano Bassi il quale, gridando come era solito fare, ordinò che i prigionieri salissero subito sui camion per essere portati via. Uno di loro, che parlava uno stentato italiano, chiese se almeno poteva riavere le foto della moglie e dei figli. Bassi sfoderò la pistola, gliela mise sotto la gola e gli disse che se non fosse salito subito sul camion l’avrebbe lasciato lì, ma da morto. Nel giro di due minuti il convoglio partì e al centro della piazza restò solo il mucchio dei ricordi dei prigionieri. A questo punto i nostri si avvicinarono e con molta delicatezza raccolsero in un sacco i documenti che poi avrebbero cercato di dare alla croce rossa affinché, a guerra finita, si tentasse di restituirli ai proprietari. Tutto quello che era “solido” il capitano Rapisarda permise ai soldati di prenderlo come ricordo. A ‘Ngiulìnu toccò un orologio da tasca completo di catena che rimise con cura nello zaino. Quest’orologio ebbe una storia tutta particolare. Alla fine della guerra, ritornato in Sicilia (sì, perché ‘Ngiulìnu riuscì a ritornare vivo e tutto intero a casa) tenne per sé l’orologio donandolo, alla sua morte, a uno dei figli. L’orologio funzionò benissimo per anni ed anni e non diede mai problemi. Solo una volta fu portato da un orologiaio per una revisione e lì si scoprì che all’interno vi era una scritta in lingua tedesca che nessuno purtroppo seppe tradurre. Dopo molti anni, una collega di un nipote, di origine austriaca, riuscì a decifrare la scritta scoprendo che il proprietario non era un austriaco ma un ungherese di Budapest. Purtroppo non vi era nessun indirizzo, ma sarebbe stato interessante riuscire a rintracciare il legittimo proprietario o un suo erede, stringergli la mano e restituire l’oggetto. Finalmente la guerra ebbe fine e tutti poterono tirare un sospiro di sollievo e rimettersi a posto da tutti i mali accumulati negli anni precedenti. La Compagnia di ‘Ngiulìnu fu mandata a riposare su un altipiano sopra Bolzano in attesa di nuovi ordini. Infatti, le truppe italiane non si erano fermate a Trento, ma avevano oltrepassato tutta la zona di Bolzano arrivando al passo del Brennero e scendendo fino a Innsbruck. Era inverno e finalmente ‘Ngiulìnu poté assaporare quanto era divertente stare in mezzo alla neve non da guerriero, ma da turista. Osservando le abitudini degli abitanti del posto, scoprì come era piacevole scendere per i sentieri innevati a bordo di una slitta. All’inizio vi fu qualche leggero incidente andando a sbattere contro un albero nelle curve più strette ma in seguito, anche con la partecipazione del capitano Rapisarda, fu più facile scendere e poi frenare in due. In pratica lo slittino era diventato il passatempo di tutti. Scendevano a turno per i pendii e alle volte battevano in velocità anche i locali>>. (continua) Angelo MASUZZO
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